amores perros recensione

La Satira di Castrense – Cane mangia cane (AMORES PERROS 2000)

Sangue freddo, sangue caldo. Sangue che si cuoce sulla piastra dopo aver visto un uomo ucciso da un barbone. Sangue e silenzio in cui lacrime usciranno dagli occhi di un uomo ormai solo nel mondo, killer di sorci e di soci, quando leggerà sul giornale la morte della moglie.

amoresperrosIñárritu inizia la sua corsa con una regia dinamica e originale. E’ tutto incastrato in una composizione di esemplari di uno zoo umano al centro della capitale del Messico. C’è chi abbaia, chi ha coraggio, chi è stupido e chi morde. Ma sono tutti dentro una gabbia. Esistenze usurate da buchi che non si possono più tappare: questi sono i personaggi di Amores Perros, primo lungometraggio del compatriotas mexinacos Alejandro Iñárritu. Quando ancora non c’era suo compare Emmanuel Lubezki. Quando nella mensola del salotto non aveva statuette d’oro, quando ancora non aveva fatto un capolavoro.

Tachicardico e travolgente il primo pezzo della storia: fanno combattere cani mentre loro sono bestie assetate di denaro. Le iene messicane. Più lento e disturbante il secondo, che vede lo sgretolamento morale e mentale di una coppia borghese normale, riflessiva e indimenticabile la storia del compagno professore divenuto barbone, l’ultimo episodio. Tre vicende legate da un incidente d’auto, che sconvolgerà le vite zoppicanti dei protagonisti. Ritratto autentico di un Messico anni ’90, la terra dei Maya che ospita gare clandestine d’esistenze, che provano a vincere la lotta alla sopravvivenza. E’ un trittico di paure umane sul destino della vita.

La musica esce dal cervello di Gustavo Santaolalla per entrare nel nostro. Delle note enfatiche di chitarra si spalmano perfettamente su fedeli immagini di una società che sta franando. Nuovo Realismo messicano è quello di Iñárritu, di una popolazione mastina che non si accascia mai.

E’ un film che ti fa conoscere quanto siamo vulnerabili alla morte. E’ un film truculento. Uno sporco e sincero dramma contemporaneo.

el chivoLa figura più travolgente tra le storie incastonate è quella di El Chivo  . La prova attoriale di Emilio Echevarría è formidabile. Docente in un’università privata, un giorno decide di scappare da casa abbandonando moglie e figlia e non lasciando più tracce alla famiglia. Compagno e guerrigliero politico starà in cella per anni. Adesso vive da accattone, borderline, la sua famiglia sono i suoi cani. Per vivere fa il killer, è un assassino che uccide per soldi per conto del poliziotto che lo ha arrestato. E’ la figura complessa di un uomo colto, rassegnato alla vita, che – bastarda – se lo trascina giorno dopo giorno. Gli occhi sono svegli, ma saturi di disperazione maledetta. Un uomo che spera di rivedere la figlia mai dimenticata, che guarda in alto il cielo tra le foglie. Un randagio a cui hanno tagliato le corde vocali. Un mastino messicano.

La fotografia di Rodrigo Prieto è sporca e adatta per una pellicola che ti emoziona con i suoi colori variegati. E ti pulsa la gola perché le immagini arrivano come un pugno.

Vite che sono assimilate dalla mancanza di una figura paterna. Storie infelici di uomini e donne che soffrono come cani. E’ un film che si chiede non se il cane sia il miglior amico dell’uomo, ma se l’uomo sia il miglior amico del cane. La risposta è no, mai. I poveri e tristi animali, che irrompono e collegano le vicende, demoliranno le vite delle maschere chiamate in gioco, in uno sconforto identitario che incatena tutti con la frase finale del film “Siamo anche ciò che perdiamo”.

La perizia degli esseri umani nel riconoscere l’essenziale delle proprie vite: questa è la chiave del film.

Sottoproletariato che vive di combattimenti tra cani nel primo episodio, media borghesia che compra casa nuova e lucente ma non ha i soldi per pagare il pavimento devastato, nel secondo capitolo. Mentre l’ultimo pezzo è la giuntura tra le due classi; El Chivo è stato un borghese, professore universitario, poi compagno combattente che  finirà in galera. Quindi dal centro della società ricomincerà la sua vita ai bordi : diventa un mendicante. Un uomo che è stato tante persone, ha mangiato tanto e ha anche desiderato mangiare. Non mette le lenti perché ha deciso che non vuole vedere. Vuole solo continuare a sognare sfocato un “mondo senza ingiustizie”.

Primo capitolo della Trilogia sulla morte è Amores Perros. I successivi film del cineasta messicano, con stili e tematiche differenti, non faranno che appoggiare la tesi secondo cui siamo proiettati ad un destino tragico. Racconta esistenze lacerate in un universo nel quale sentimenti e denaro viaggiano veloci sullo stesso binario. Anime che pesano 21 grammi, ma non di oro.

amores-perrosIl soggetto e la sceneggiatura di Guglielmo Arriaga sono una trappola perfetta nella quale tutta la roba inserita aderisce e si lega fluidamente, nonostante lo spessore e la mole della storia. L’incastro delle scene cambia dal primo episodio veloce e avvincente all’ultimo maggiormente riflessivo. Montaggio amministrato dallo stesso Iñárritu, che lo modella perfettamente con le inquadrature scelte. Inquadrature a mezzo primo piano e inquadrature di quinta per i primi due episodi, che vanno a sfumare verso primi piani introspettivi dell’ex guerrigliero nell’ultimo. Tuttavia la prevalenza della camera a mano potrebbe innervosire lo spettatore attento. E’ un film di incastri, la musica di Santaolalla con le immagini di Iñárritu, un cruciverba terminato eccezionalmente, in cui una parola viene fuori: realismo.

Il sangue che sporca e addolora i protagonisti in questo film ci collega in maniera diretta con un elmento filmico rilevante: il corpo. Avrà un valore catartico e rivoluzionante la trasformazione del corpo e dell’aspetto di quelli che potremmo considerare i tre protagonisti principali.

Non c’è per niente l’ironia della violenza e della morte, non c’è il pulp, ma Iñárritu nel 2000 butta un occhio sulla struttura narrativa tarantiniana, con una narrazione circolare ad incastro, vicende vissute da punti di vista differenti, per raccontare sentimento e morte. Un anno prima Paul Thomas Anderson fa in parte quello che farà il cineasta messicano, con 9 storie di vita intrecciate in una Los Angeles contemporanea: Magnolia.

Non ci sono i trampolini concettuali o metaforici o magari anche estetici dei film che penserà e dirigerà dopo l’opera prima, che lo faranno galoppare fino alla collina di Hollywood. Qui c’è il realismo efferato di un giovane autore che tiene in grembo le storie che ha visto. E le partorisce con dolore.

Alejandro González Iñárritu nel 2000, senza pedigree, solo con il suo talento, iniziava a marcare il territorio. Oggi segna, senza guinzaglio, un pezzo di storia del cinema contemporaneo.


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