Love, Death & Robots è la nuova serie animata targata Netflix. Questa è la recensione della prima stagione.
Ideata da Tim Miller, regista del blasonato cinecomic Deadpool, e prodotta, tra gli altri, da David Fincher, Love, Death & Robots è una serie antologica di cortometraggi animati il cui unico fattore in comune è rappresentato dal contorno delle storie che risulta sempre vicino al genere fantascientifico. Relegare però “Love, Death & Robots” ad un’unica categoria sarebbe un errore dato che nel corso degli episodi vengono attraversati diversi generi, si spazia infatti dall’horror all’erotico, passando dalla commedia e dal dramma, e affrontate le tematiche più disparate.
Questa grande eterogeneità non riguarda soltanto l’aspetto contenutistico ma anche la cifra stilistica e l’aspetto puramente visivo della serie animata. Ci sono infatti cortometraggi la cui animazione tenta di riprodurre in maniera verosimile la realtà, altri in cui l’aspetto dei personaggi e degli ambienti risulta accomunabile maggiormente alle caratteristiche più comuni del cinema d’animazione contemporaneo (basti pensare alle caratteristiche visive di un “Frozen” o di un “Dragon Trainer” per intenderci) ed altri ancora che abbracciano invece un’estetica più tradizionale, con echi del rinascimento Disney degli anni ’90 del secolo scorso.
Proprio questa enorme varietà stilistica e contenutistica che permea la serie, la cui prima stagione è composta da 18 episodi di una durata variabile, tra i 6 e i 17 minuti, rende estremamente complicato il tentativo di dare un giudizio univoco alla stessa. Ci sono, infatti, cortometraggi dotati di un buon potenziale immaginifico, come ad esempio l’episodio intitolato “Buona Caccia” che mescola sapientemente alcuni elementi della fantascienza di inizio ‘900 con la storia passata, il tutto condito da un tocco vagamente “miyazakiano”. Altri purtroppo paiono meno incisivi e tra cui possiamo citare “La notte dei pesci” ad esempio.
Al termine della visione della serie quello che emerge è la mancanza di un filo conduttore forte che anche in un prodotto di natura antologica, come testimoniato ad esempio da “Black Mirror”, risulta necessario al fine di dare senso alla parola serie. Questo non significa però che i cortometraggi che ne fanno parte siano da buttar via, anzi, seppur con risultati altalenanti, molti di questi hanno vari motivi di interesse; nonostante questo fattore risulta però maggiormente in rielevo il valore dei singoli lavori presi individualmente anziché quello del complesso degli stessi e forse, vista la natura del prodotto, ciò potrebbe lasciare un po’ di amaro in bocca.
In fondo, tuttavia, potrebbe non essere un male che “Love, Death & Robots” stimoli una riflessione metacinematografica sul significato profondo della parola “prodotto seriale”, ma questa è un’altra storia.