[Recensione] Il Diritto di Contare, la storia nascosta delle afro-americane della NASA

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Il Diritto di Contare è il nuovo film del regista Theodore Melfi, che si è fatto conoscere e apprezzare dal pubblico col film St. Vincent con protagonista Bill Murray e che per accettare questo incarico ha rifiutato di dirigere il blockbuster Spiderman.

Ognuno di noi associa alla NASA la figura dell’astronauta o dello scienziato, ma non tutti sanno che nella Virginia degli anni ’60, soggetta alle leggi di segregazione Jim Crow, anche la NASA, l’istituto più evoluto e aperto della Nazione, aveva una sezione separata, la West Computing, in cui operavano donne afro-americane. Per troppo tempo la storia ha trascurato che qui tre donne afro-americane hanno dimostrato l’importanza di essere primi diventando protagoniste del primo grande successo dell’Agenzia spaziale e anche dei successivi.

Titolo originale del film è infatti “Hidden Figures” che, tradotto letteralmente significa “Figure nascoste” o anche “Cifre nascoste”, doppio significato esplicativo del film: “figures” è riferito non solo alle persone nascoste dietro a sensazionali scoperte, ma anche ai numeri oltre ai quali hanno saputo vedere e che sono stati strumento della loro rivalsa.

Il soggetto è tratto dal libro omonimo di Margot Lee Shetterly. La storia reale, ma sconosciuta è nello specifico quella di Katherine G. Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), tre donne afro-americane visionarie e con un intelletto superiore alla media, che hanno superato barriere professionali, razziali, di genere, per contribuire in prima persona a cambiare la storia del loro paese tramite il progresso scientifico, consce di dover “toccare le stelle” per la sopravvivenza e per abbattere i pregiudizi. Saranno quindi loro le figure fondamentali per una vittoria scientifica degli Americani sui Russi in periodo di Guerra Fredda: la spedizione in orbita dell’astronauta John Glenn che, di certo, alla storia non è passato inosservato.

Il film ha il pregio di essere, oltre che anti-razzista, “femminista” nel senso più intellettualmente corretto e raffinato del termine, mostrando contemporaneamente la donna in carriera, la donna che combatte per i propri diritti, la moglie e la madre, la donna che la domenica si riunisce con tutte le altre donne, confondendosi tra le tante. È un film che ricorda alle donne cos’è il vero femminismo, ricorda alle donne che si può essere amanti, mogli e madre e allo stesso tempo, ricorda di essere artefici del proprio destino, di quello del proprio popolo e del proprio paese, ricorda che ogni donna ha il diritto di scegliere, che una generosa scollatura non compensa un poco generoso livello intellettuale.

È un monito altresì alla solidarietà femminile attraverso la storia di tre donne diverse e opposte che della propria amicizia hanno fatto il punto di forza, operando insieme per un obiettivo comune importante.

È un film che soprattutto gli uomini dovrebbero guardare. Gli uomini scettici che ritengono che la donna sia ancora il sesso debole, gli uomini che hanno paura di dover scegliere tra la donna in carriera e la moglie o la madre dei propri figli, ignorando che la donna è tutto questo. Gli uomini che, come il Colonnello Jim Johnson si chiedono “fanno fare cose alle donne?” e al quale Katherine risponde “Sì e non è perché indossiamo la gonna, ma perché indossiamo gli occhiali”.

Nonostante le tematiche ancora, ahinoi, molto discusse e molto pesanti, il film, oltre a essere di grande impatto emotivo, suscitando talvolta rabbia e voglia di rivalsa, è veloce, ironico e divertente.

Ciò che traspare dal film è il lavoro di una grande squadra che ha lavorato unita e convinta di avere tra le mani una storia potente da portare alla luce, come un oggetto archeologico di valore che apporta un contributo importante alla storia umana.

Ogni cosa è studiata maniacalmente per essere perfetta, non per sembrare un esercizio di stile, ma per attribuire alla storia la verità che merita, come se si volesse catapultare lo spettatore in quel luogo, in quel tempo, nella vita di quelle persone.

Theodore Melfi e Allison Shroeder in primis hanno svolto profonde ricerche sulla storia navigando tra gli archivi e intervistando le persone presenti.

Melfi, per creare maggiore empatia col periodo storico, ha deciso di utilizzare la pellicola di celluloide anziché la digitale, scelta che è stata apprezzata dalla direttrice della fotografia Mandy Walker la quale, grazie a l’uso di questo materiale, ha potuto giocare con i contrasti dei colori e della luce.

I personaggi sono descritti molto bene grazie anche all’ambiente che abitano, ideato da Stephanie Carroll la quale, si è anche cimentata nel ricreare i luoghi del periodo ricostruendoli con oggetti di design tipici.

La stessa cosa vale per i costumi creati da Renée Kalfus, per i quali una nota di merito è quella di essere cuciti su misura per dare l’idea che siano fatti in casa. Alle attrici, per amor di realtà, è stato chiesto di indossare i corpetti così come si usava in quel periodo.

La musica è nera in tutte le sue sfumature ed è uno degli elementi portanti, che contribuisce a scandire il tempo, dare valore alle immagini e sottolineare gli avvenimenti. Oltre a Janelle Monàe, che è anche tra le interpreti del film, a queste hanno contribuito Hans Zimmer, Benjamin Wallfish e Pharrell Williams che per l’occasione ha composto Runnin’ e I See A Victory scritta insieme a Kirk Franklin, interpretata da Kim Burrell, celebre cantante gospel.

Per il film sono tre le nomination agli Oscar: miglior film, migliore attrice non protagonista (Octavia Spencer), migliore sceneggiatura non originale.

In conclusione, Il Diritto di Contare, è il film che ogni mamma dovrebbe far vedere alla propria figlia, per incoraggiarla a essere prima, cambiare il mondo e non aver paura di contare.

VOTO: 10

Una storia coinvolgente con una forte morale, che andava raccontata ed è stata raccontata impeccabilmente tramite un palpabile lavoro di squadra e una sentita affezione al tema trattato.

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