[Recensione] Baby Boss, il cartoon di Tom McGrath prodotto dalla DreamWorks Animation

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Baby Boss (The Boss Baby) è il cartoon targato DreamWorks Animation diretto da Tom McGrath e tratto dall’omonimo romanzo di Marla Frazee. Tra i doppiatori originali ricordiamo Alec Baldwin, Tobey Maguire, Steve Buscemi, Jimmy Kimmel e Lisa Kudrow.

Timothy Timpleton è un ragazzino di sette anni amato e coccolato dai genitori che lavorano presso una grossa società che si occupa di cuccioli di animali. Tim è un bambino dalla fervida immaginazione con la quale fantastica di mirabolanti avventure. La vita e la felicità di Tim subiscono però un contraccolpo il giorno in cui i genitori si presentano a casa con un piccolo bebè, ovvero il fratellino di Tim. Il piccolo attira tutte le attenzioni dei genitori di Tim, il quale si sente trascurato.

Nutrendo dei dubbi sul nuovo arrivato, Tim scopre che il piccolo è in realtà un agente della Baby Corp incaricato di sventare un complotto criminale che ha lo scopo di creare un cucciolo di animale che non invecchia mai e che potrebbe mettere in difficoltà i bambini di tutto il mondo privandoli dell’amore dei genitori. Nonostante l’astio iniziale, Tim e il “Baby Boss” dovranno unire le forze per sventare il complotto.

Il film

Baby Boss vuole giocare su un terreno non facile come quello dell’infanzia, del potere dell’immaginazione infantile e del duplice rapporto genitori/figli e fratello maggiore/fratello minore. Per fare ciò, noi vediamo il film quasi completamente attraverso gli occhi di Tim (con un’animazione che richiama molto quella tradizionale degli anni ’50), ovvero vediamo ciò che la sua mente produce per far fronte alle dinamiche famigliari e agli eventi che lo riguardano: ad esempio, un giro in bicicletta si trasforma nella sua mente in un’avventura aerospaziale. Soggettività rimarcata, inoltre, dalla narrazione in prima persona di Tim adulto che racconta la vicenda a un non specificato ascoltatore – noi spettatori, certo, ma il vero mittente lo si scoprirà solo alla fine.

Ma la DreamWorks, sapendo di non poter competere con la Pixar (i richiami a Inside Out sono molteplici), decide di giocare le sue carte non tanto sull’astrattezza del contenuto – là erano le emozioni di una bambina, qui la crisi vissuta in prima persona dovuta all’arrivo di un fratellino – ma optando per una sequela di gag quasi tutte riuscite (la sceneggiatura è di Michael McCullers, autore della saga di Austin Powers) che “abbassano” il potere originario del soggetto per fondere alla narrazione un ritmo da commedia strictu sensu.

Ma il fuoco d’artificio di gag e situazioni paradossali, come paradossale è lo spunto di partenza del film, riescono a far emergere ciò che il film vuole dire più in profondità, ovvero che l’Amore che può nascere dall’odio iniziale che un bambino può provare nei confronti del fratellino può assumere i contorni dello stesso Amore che i genitori provano per i propri figli e far fronte, dunque, alle difficoltà della vita che qui diventano soggetto per un’avventura spionistica alla James Bond.

E così, il film diventa una metafora che viene resa esplicita nel finale, ma lo diventa solo in parte, non riuscendo (a dispetto di un finale, se vogliamo, commovente) a dare il colpo d’ala necessario per far levitare veramente la storia come se mancasse la volontà primaria di far levitare il film a un livello più alto rinunciando alle gag per puntare sulle emozioni di chi guarda (ecco la vera differenza tra questo film e Inside Out), oltre che quelle dei personaggi che mostra. Ma il film funziona, possiede un ritmo che dura dall’inizio alla fine anche se, una volta che è stata giocata la carta del rapporto d’odio tra i due fratelli che poteva garantire al film un andamento più intimistico e “adulto” il film si trasforma; non che sia un difetto, ma la strada che percorre è più risaputa e, in un certo senso, più meccanicistica.

Voto: 6.5


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