La satira di Castrense – Bugiardi senza gloria by Quentin Tarantino

the hateful poster

Quentin Tarantino chiede a Ennio Morricone di accompagnarlo al ballo di fine anno. Il maestro, dopo tentennamenti, accetta. Ma il fatidico premio del ballo lo otterranno?

Tarantino serra la porta con legno e chiodi di una gabbia-locanda innevata e ci infila dentro otto esemplari di iene del XIX secolo pronte a sbranare la volpe (o le volpi).

“Il lavoro di un bastardo non finisce mai”, da epoca a epoca, di un bianco, un nero, una donna o un messicano. O di un regista hollywoodiano.

Bugiardi senza gloria sono i protagonisti dell’ottavo (in teoria) film di Tarantino, che testimonia la consapevole maturità – osando con un film quasi solo parlato – di uno dei cineasti che questi decenni ha più influenzato. (Io ancora non ero nato, ma mi hanno detto che Pulp Fiction sia uscito dal suo cervello malato).

Realizza, come un artigiano, un lavoro d’annata qui, coordinando – con anni di lavoro alle spalle – attori con le palle. Alcuni, purtroppo,  le perderanno durante la sparatoria.

Una carrozza carica di cacciatori di taglie e cacciatori di tagli va verso Red Rock per un pugno di dollari di un’ennesima impiccagione, ma le nevi violentatrici costringono questo gruppo senza radici, a fermarsi alla locanda di Minnie. Quattro, anzi otto, mura di legno saranno colme di dialoghi insanguinati e colpi di parole. Come i vecchi tempi: in guardia a destra e sinistra.

Scenografia e struttura teatrale per una pellicola costruita dentro un salotto quasi goldoniano da Locandiera, nel quale le porte, di legno fracido, sono l’elemento di divisione tra la violenza, interna, umana e la violenza, esterna, della natura.

Siamo negli anni dell’abolizione della schiavitù. Abramo Lincoln spediva lettere. Gli anni delle rivincite dei neri d’America. Un attimo, a proposito: ma la candidatura all’Oscar di Samuel L. Jackson dove è finita quest’anno?

Il clima è quello de La Cosa del 1982 di John Carpenter (anche qui il grande Kurt Russel), che ti piace ma ti inquieta. L’ottavo film di Tarantino è uno stufato di pellicole western leoniane con schemi da giallo di Agatha Christie, che, come in un imbuto, arriva ad essere un “thriller splatter”. Il sangue che piace a Quentin. Quel colore giallo permane che ad un certo punto te la fai sotto: hai paura che il colpevole di tutta la faccenda possa essere tu!

Ma il giallo avvenne prima della produzione del film, quando uno dei produttori permise a un agente di leggere la sceneggiatura, data pure a tre attori del cast attuale. L’unico non colpevole sarebbe Tim Roth, ma gli altri la passarono ai loro agenti (che si presume l’abbiano fatta girare ad Hollywood e poi online). Da quel momento Quentino non volle più fare il film, triste, dopo un po’, lo riscrisse. Un giallo nel giallo. Chi fu questo grande motherfucker che divulgò la maledetta sceneggiatura? Nessuna taglia sulla sua testa?

La qualità della composizione musicale è straordinaria, ora emozionante, ora tenebrosa, ora anche ironica. La sequenza in cui il maggiore Warren (Samuel L. Jackson) discorre con l’anziano generale Smithers (Bruce Dern) insaporita dalle note stonate intradiegetiche di Silent Night è da Oscar. Musica drammaticamente divertente. Pulp.

Il vento gelido e arrogante, in ogni caso, è il primo violino di questa grande orchestra sinfonica.

La colonna sonora crea quell’effetto spaghetti-vintage che ha lo stesso scopo dell’utilizzo dell’ Ultra Panavision 70mm, che come una bella donna si deve menzionare, con le sue panoramiche inquadrature definite (solo per pochi ovviamente). Un western senza sole e aridità, ma bianco e innevato che ci vorrebbe una tazza di caldo caffè nero.

“Allora è stato il brutto!” esclama il presunto sceriffo con i tre sospettati di spalle. Gli omaggi non possono che essere al maestro Leone, che ha ossessionato Tarantino, il quale, nel ’92, agli inizi della propria carriera,  non conoscendo i termini, disse al cameraman: “Give me a Leone!” per avere un primo piano eccitante sui dettagli. Il film era Le Iene, i personaggi si chiamavano con nomi di colori, quei colori che nell’ultimo film sono simboli razziali, ora ideologici, ora di lotta umana. The Hateful Height è un film di impegno civile.

 

 


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