La Satira di Castrense a Taormina – “Desierto” di Jonás Cuarón in anteprima

desierto recensione

Un coro di compatriotas mexicanos senza green card entra dentro il rotondo mirino di un gringo psicopatico che odia gli immigrati. Al confine tra Messico e Usa, sono “Cani sciolti”, come quelli del film del 2013 di Baltasar Kormàkur. Anzi sono gatti messicani che fuggono come lepri da un cane americano. Al quale nessuno ha detto che per il vicino si porta rispetto.

La sceneggiatura è magra nel secondo film di Jonás Cuarón, perché è un thriller che corre, evita e si arrampica per una sopravvivenza che zoppica. Alternanza quasi regolare tra macchina fissa per le inquadrature grandangolari e macchina a spalla che prova a dare tensione per inseguimenti non proprio spettacolari. È un film che non chiede venia né ai difensori dei diritti degli immigrati né agli animalisti. Crudo e barbaro come la paura di morire quando ti accorgi che esisti.

L’attacco è di una quiete contemplativa, nella quale il direttore della luce Damian Garcia assegna il compito allo spettatore di osservare e studiare il paesaggio desertico, afoso e naturale, asfissiante nella sua infinità rurale. Dominerà il film per la durata temporale.

Il sole è la bussola verso un camion colmo di messicani disperati alla ricerca della frontiera, verso le stelle e le strisce. Si ribella il mezzo meccanico che costringe il gruppo a proseguire comminando; non l’avessero mai fatto! Da qui in poi inizia un’Odissea di sangue verso esecuzioni dopo esecuzioni, come se fossero soldatini di plastica questi messicani erranti. Abbattuti uno dopo l’altro, cercando di fare strike.

Nessuno avrebbe potuto immaginare la minaccia di Sam, un cowboy sporco di sangue e tatuaggi. Non sbaglia un colpo all’inizio, alla fine, però, li sbaglia tutti. Oltre l’odio gratuito verso chi vuole varcare la frontiera, non c’è nessun motivo manifesto per il quale debba uccidere tutta questa gente. Con la carabina gioca a bowling umano. La palla è un bel fucile con mirino di precisione, i birilli sono i 14 migranti. Non è solo: ha la compagnia di Tracker, il suo pastore tedesco, che addestrato sembra per trovare uomini, come in un poliziesco. Insegue i clandestini e  si diverte a mangiare le loro gole, ribaltando i loro destini. Qualcosa si infilerà tra i suoi canini.

Jeffrey Dean Morgan nel personaggio di Sam indossa le vesti introspettive di un sociopatico che sembra una cavia ideale uscita dal laboratorio dell’attuale. Con una libertà d’azione che vorrebbe avere un qualsiasi Matteo Salvini nel mondo. “Benvenuti nella terra della libertà” esce dal buco tra la barba del Gringo americano.

Fra la sabbia del deserto lui è il cattivo, mentre il buono è Moises (Gael Garcìa Bernal). Il giovane rimane dietro per aiutare il compatriota sfinito, difende una ragazza dalle perfidie umane, con una famiglia che la costringe ad emigrare verso un luogo indefinito. Ma al suo personaggio non ci innamoriamo, perché neanche il tempo abbiamo di sederci al cinema che subito diventa il protagonista e lo capiamo. Solo in una scena il regista ci fa scendere nella sua vita personale, fatta di un castello di carte americane costruito e poi andato a male. Dovrà tornare negli Stati Uniti perché il figlio aspetta il papà immortale; un piccolo uomo che ha una grande motivazione per restare in vita. “Che ti ammazzi il Deserto” sussurrerà al cecchino.

Deserto come emblema del male umano, che confini non ha. Il paesaggio vastissimo viene servito da un primo piatto di musica originale sintetizzata con contorno di montaggio sonoro angosciante. Rumore di passi, pietra che cade, tonfo di un corpo colpito. L’eco dell’arma da fuoco.

Allegoria di attualità infarinata da film di genere. Film spietato ma iterativo. Non ci sono colpi di scena reali, ci sono solo inseguimenti mortali. E poi alcune costruzioni narrative esagerate: il cecchino colpisce la prima decina di vittime con un solo colpo a birillo; nell’inseguimento di Moises, tuttavia, ne sbaglia a bizzeffe di colpi che anche mia nonna con la cataratta e il fucile ad acqua l’avrebbe preso.

Il figlio del premio Oscar Alfonso ha lavorato con il padre per la sceneggiatura di “Gravity”. Desierto, infatti, se spingiamo la nostra immaginazione, potrebbe esibire delle analogie con il film premio Oscar 2014. Si presentano delle vaghe somiglianze tematiche nella lotta alla sopravvivenza contro faticosi inconvenienti in una natura inospitale.

Sam potrebbe benissimo essere un qualunque Donald Trump, pronto a cacciare il fucile per annientare tutto ciò che non sia americano. La questione è più attuale che mai, quindi Cuaròn infila il tema socio-politico nel genere “Follia ed inseguimenti”, ma senza comunque fare esperimenti. Senza sconvolgere lo spettatore medio che ha già capito tutto senza rimedio.


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