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La recensione di Il caso Spotlight – L’indagine di una delle pagine più controverse della storia contemporanea

Il regista Tom McCarthy, attraverso un cast strepitoso, porta al cinema una vicenda controversa avvenuta nei primi anni Duemila che indaga il marciume che si cela all’interno dell’istituzione più grande esistente: la Chiesa Cattolica.

La trama

Boston, 2001. All’interno del Boston Globe, lavora il team Spotlight, ovvero quattro giornalisti che si occupano di inchieste piuttosto scottanti dedite a far conoscere quello che non funziona all’interno della società. Con l’arrivo del nuovo direttore Marty Baron, il team si deve occupare di un’indagine riguardante alcuni abusi sessuali perpetrati da dei preti nei confronti di ragazzini e messi a tacere dalla Chiesa.

A mano a mano che l’indagine avanza, emergono dettagli scottanti che ampliano il terreno arrivando a comprendere circa novanta sacerdoti: il team dovrà ricorrere alla propria determinazione per riuscire a pubblicare una delle storie più controverse della nostra epoca.

Il film

Il cinema ci ha sempre abituato a storie in cui si narrano inchieste poliziesche o giornalistiche atte a far emergere il lato oscuro della società, come ad esempio Serpico di Sidney Lumet Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula. Proprio quest’ultimo capolavoro di cinema civile impegnato sembra il nume ispiratore del film di McCarthy che, seppur diverso nell’indagine riportata, gli si avvicina per contesto (quello giornalistico) e per la struttura della narrazione che si fa via via sempre più fitta e tesa.

Il film, sceneggiato dal regista insieme a Josh Singer e candidato a sei premi Oscar tra cui miglior film, è un perfetto esempio di film costituito prevalentemente da dialoghi che costituiscono la struttura portante dell’intero film; la regia, pur senza vezzi artistici particolari, segue le vicende dei quattro giornalisti che seguono, a loro volta, una vicenda più grande e ci riporta nel complesso la loro fatica e il loro lavoro. Per questo nel film assistiamo alle telefonate fatte dai personaggi e al loro prendere appunti durante le interviste fatte alle vittime (che sono i momenti più toccanti del film): il film diventa così una registrazione puntuale e precisa dell’indagine senza scadere nel sensazionalismo, ma tenendo a freno l’indignazione adottando uno stile secco che mira all’obiettivo e lo centra.

Se il film all’inizio può risultare ostico e lento è per la presentazione (necessaria) dei personaggi e per far entrare lo spettatore nel contesto sociale in cui avvengono le vicende; perciò, a riprese in campi lunghi della città si alternano i primi piani dei volti sia di chi l’indagine la conduce sia delle vittime da essi interrogate. La regia, d’altra parte, non è mai invasiva e lascia liberi gli attori di muoversi e interagire tra di essi senza alcuna costrizione.

Alcune menzioni vanno fatte all’interno cast, da Mark Ruffalo Rachel McAdams passando per Michael Keaton, e al montaggio che non frantuma lo spazio e il tempo, ma procede lineare e accorto insieme alla regia, come se fossero due mani che lavorano insieme.

Il caso Spotlight è un film che deve essere visto, sia per come è stato girato (una lezione di regia “nascosta” ma decisa”) sia per ciò che racconta, capace di far indignare solo ed esclusivamente attraverso il “detto e non mostrato”, evitando così anche una certa morbosità che un tema del genere potrebbe provocare. Passato fuori concorso a Venezia, dove ricevette il pieno consenso di pubblico e critica, sarebbe stato meglio averlo visto in concorso.

Voto: 8.5