L’Italia ed il cinema horror: il caso di “A Classic Horror Story”

A Classic Horror Story, l'horror italiano che conquista

Nel nostro paese si sente spesso dire, anche dagli appassionati e persino dagli addetti ai lavori, che il cinema di genere è un tipo di cinema che difficilmente trova lo spazio che meriterebbe.

A volte, poi, si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando: lo abbiamo detto quando gridammo al miracolo con “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, lo abbiamo detto quando abbiamo esultato per le incursioni horror di registi del calibro di Luca Guadagnino, lo abbiamo ribadito affermando talvolta che il sottobosco nostrano sia uno dei più ferventi da questo punto di vista.

Tutto bello e tutto vero, eppure è difficile scrollarsi di dosso quella convinzione che il cinema di genere in Italia sia comunque tenuto, in un certo senso, al guinzaglio. Come se il grande pubblico fosse convinto che, in fondo, nel bel paese un certo tipo di film non possa essere girato, o forse come se siano le stesse società di produzione a titubare e a non credere fino in fondo al successo di iniziative italiane in quest’ottica.

In ogni caso certe produzioni nostrane non possono che farci ben sperare, basti pensare ai film di Alessio Liguori (“Report 51”, “In the trap – nella trappola” o il più recente “Shortcut” piazzatosi nella settimana d’esordio al settimo posto del box office USA) o a quelli di Roberto D’Antona (“The wicked gift”, “Caleb”, “Hidden – verità sepolte”).

Da profondo appassionato di cinema horror/sci-fi/pulp sento di poter dire che le forze messe in campo sono davvero ottime e che, secondo me, nei prossimi anni ne vedremo delle belle; soprattutto se i nostri (registi, sceneggiatori, produttori) riusciranno a scardinare una sorta di dipendenza dall’immaginario cinematografico americano che è spesso alla base dei problemi di gran parte dei film di genere italiani. Questo non vuol dire che bisogna girarsi dall’altra parte, certe soluzioni e certe idee attuate e che hanno reso famosi maestri come Cronenberg o Raimi possono essere certamente rielaborate e messe al servizio di qualcosa di nuovo. Credo però che sia enorme la necessità di cercare con prepotenza, magari anche a costo di fare qualche passo falso, una strada maggiormente identitaria.

Ci hanno provato, e con ottimi risultati, i registi Roberto De Feo e Paolo Strippoli e gli sceneggiatori Milo Tissone, David Bellini, Lucas Asmaron e Lucio Besana con “A Classic Horror Story”, distribuito sulla piattaforma Netflix a partire dal 14 luglio 2021. Una candidatura ai David di Donatello nonché una ai Ciak d’Oro e una menzione da parte del New York Times che lo ha inserito tra i cinque migliori horror da guardare in streaming, il film in questione rappresenta, secondo il parere di chi scrive, il perfetto connubio tra derivazione e rielaborazione di alcuni topos di un certo cinema made in USA e la ricerca di una via personale, nuova, puramente legata alle ambientazioni e alle tradizioni italiane. La trama è presto detta: cinque ragazzi in viaggio su un camper in direzione Calabria, un incidente che blocca il loro percorso e che li costringerà a fermarsi nei pressi di un’abitazione dall’aspetto sinistro, una serie di terrificanti rivelazioni.

La scrittura è, senza dubbio, il punto di forza di “A Classic Horror Story”, riuscendo a mettere in piedi un pastiche di citazionismo (c’è “Hostel”, c’è “Midsommar”, c’è “Non aprite quella porta”, e altri), folclore nostrano (la leggenda calabrese dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso) e un’autoriflessione sulla condizione del cinema di genere in Italia. Tutti fattori tenuti in piedi da una messa in scena efficace e da una serie di soluzioni vincenti (le musiche romantiche che fanno da sottofondo alle scene più efferate) e da una fotografia e da un montaggio serrato e funzionale.

Non è un caso, infatti, se il film sia stato tra i più visti al mondo su Netflix tra il 14 e il 20 luglio del 2021 e non è un caso se ancora oggi, a distanza di due anni dall’uscita, quando si parla di rinascita dell’horror italico, non si possa fare a meno di citare “A Classic Horror Story”.

Così come, andando a ritroso nel tempo, non si può fare a meno di ricordare la precedente pellicola di De Feo: “The Nest – il nido”. Scritto anch’esso con Lucio Besana (i due, tra l’altro, sono appena usciti in libreria con “L’innocenza del buio”, romanzo a tinte fosche per la collana Macabre di Sperling & Kupfer), questo film, datato 2019, mette in scena una serie di strani e inquietanti eventi che sconvolgono la vita di Samuel, ragazzino paraplegico che vive con la madre in una mansione che si erge isolata tra i boschi.

Fin da questo esordio al lungometraggio De Feo ha dimostrato di attingere bene da certe fonti d’ispirazione (Shyamalan e “The Others” di Amenabar su tutti), le cui suggestioni sono utilizzate con sagacia per creare una sorta di immaginario gotico italiano che sarà in parte riproposto nel succitato “A Classic Horror Story” e che offre allo spettatore un’esperienza cinematografica che non ha nulla da invidiare alla, giustamente, blasonata tradizione orrorifica che ci ha resi famosi nel mondo: Fulci, Argento, Avati.

Il punto cardine del successo di esperimenti di questo tipo si rivela dunque il legame tra la scrittura e la messa in scena, fattore che permette alle intenzioni che si celano dietro le parole di diventare immagine che si para davanti agli occhi dello spettatore, e di terrorizzare, suggestionare, stupire, inquietare. Di questo legame e di tanto altro (di cinema, di letteratura, di weird, di straniante) parleremo a brevissimo con Lucio Besana, scrittore (“Storie della serie Cremisi” edizioni Hypnos), traduttore, docente e, appunto, sceneggiatore di “The Nest” e “A Classic Horror Story”, in un’intervista che sarà pubblicata sulle pagine di Universal Movies.

Stay tuned!


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