David Lynch, morto un grande autore

David Lynch, il cinema come indagine dell’inconscio

Immagini inquietanti, disturbanti e profondamente pervasive. Ma anche immagini sublimi, eterogenee e sempre in grado di porci domande apparentemente senza risposta. Tutto questo, e molto altro, è il cinema di David Lynch, scomparso ieri all’età di 78 anni.

Riassumere e comprendere il cinema di David Lynch non è impresa facile. I suoi film, a partire dall’incubo in bianco e nero di Eraserhead (1978), talmente disturbante e angosciante che Stanley Kubrick lo fece vedere al cast di Shining, costituiscono una pietra angolare del cinema per la loro forza immaginifica con cui sono riusciti a penetrare e indagare l’inconscio per poi fuoriuscire come lava e, lentamente, farci vedere il mondo come non lo avevamo mai visto.

Un cinema certo non facile e di immediata comprensione, soprattutto se consideriamo i suoi ultimi due lavori per il grande schermo, ovvero Mulholland Drive (2001) e INLAND EMPIRE (2006), quest’ultimo girato completamente in digitale, tecnologia che ha permesso al regista di creare immagini uniche nella storia del cinema.

Ma prima ci sono stati altri capolavori che non cessano di ammaliarci e inquietarci: The Elephant Man (1980, scandalosamente lasciato a bocca asciutta agli Oscar), ricco di una pietas che non diventa mai sentimentalismo effimero e fine a se stesso; Velluto Blu (1986), che ha riscritto i canoni del noir creando un corto circuito tra realtà e immaginazione; Strade perdute (1997) in cui si vedono le avvisaglie di ciò che sarebbe arrivato in modo più radicale nei suoi ultimi due lungometraggi; Una storia vera (1999), apparentemente il meno “lynchano” dei suoi film è quello più meditabondo sullo scorrere del tempo e uno spaccato sincero dell’America di provincia.

E poi, in mezzo a tutto questo, c’è Twin Peaks, la serie che può essere considerata la summa della poetica di David Lynch, del suo modo di intendere il mezzo espressivo della televisione e che porta lo spettatore all’interno di un mondo in cui nulla è definitivo (o definitivo), in bilico tra sogno e realtà, ma in cui tutto è il contrario di tutto: come nei sogni, appunto. Tre stagioni (anche se la seconda venne tolta al controllo di Lynch) che hanno posto una cesura tra un prima e un dopo: e la televisione non è più stata la stessa.

Quello di David Lynch è un cinema surreale, visionario, contemplativo che non smette di affascinare: ci repelle, ma al contempo ci ammalia e noi, in balia di immagini sempre più forti ed evocative, gli chiediamo di dirci e mostrarci sempre di più. Ora, David Lynch non potrà più indagare il suo (e nostro) inconscio, ma il suo cinema sì, e lo farà ancora per molto tempo.


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