Breve storia del genere horror – Dal cinema muto al found footage (prima parte)

L’horror, culla di incubi e di spaventi, di nervi scossi e di brividi, è il genere che più di ogni altro ha dimostrato di saper passare indenne (più o meno) i decenni trascorsi dalla nascita del cinema fino ai giorni nostri.

In questa sede cercheremo di tracciare una breve storia, per quanto possibile, del genere horror partendo da alcuni esempi del cinema muto fino ad arrivare ai nuovi horror realizzati con la tecnica del found footage. Il tutto sarà diviso in due parti: la prima parte inizierà dal cinema muto per arrivare fino agli anni Settanta, la seconda prenderà avvio dagli Ottanta e arriverà fino ai giorni nostri.

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Con il cinema muto, la potenza espressiva del mezzo cinematografico era rilegata strettamente alle immagini, non potendo usufruire del suono per creare quel fascio sonoro che sarebbe poi diventato una marca stilistica propria del genere. Perciò, i registi dovettero elaborare un certo tipo di inquadrature che, con la complicità dell’apparato scenografico e della recitazione marcata degli attori, riuscissero a far provare allo spettatore quel senso di terrore opportuno. Tra gli esempi più celebri e studiati del periodo muto, è doveroso o ricordare almeno Il Golem – Come venne al mondo (1920) di Carl Boese e Paul Wegener, Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, e ovviamente Nosferatu il Vampiro (1922) di F. W. Murnau: non è un caso che i film citati siano stati realizzati in Germania con una certa derivazione dall’espressionismo pittorico, e comunque prima dell’avvento del Nazismo che considerò l’espressionismo “un’arte degenerata“. Raramente come in questi casi, l’arte venne usata al servizio di un genere specifico come l’horror, raggiungendo vette stilistiche e formali che difficilmente si sarebbero ripetute in seguito.

Come la pittura, anche la letteratura servì (e serve tuttora) come base di partenza per la creazione di icone cinematografiche tipiche del genere, come dimostrano gli anni Trenta e Quaranta che vedono una fioritura considerevole di film (quasi tutti prodotti dalla Universal, che si specializzò in questo genere) tratti da opere letterarie dell’Ottocento come Dracula (1931) interpretato da Bela Lugosi, Frankenstein (1931) interpretato da Boris Karloff e Il dottor Jekyll (1931) di Rouben Mamoulian. Questi film, insieme a Il bacio della pantera (1942) di Jacques Tourneur, fecero in modo di far uscire il genere horror dalla cosiddetta “serie b” grazie anche alle interpretazioni degli attori che divennero vere e proprie icone, sfociando poi in fenomeni di costume ripresi e ripetuti nel cinema postmoderno.

Se è vero che il cinema va sempre considerato in riferimento al contesto socio-culturale in cui vive, ecco che negli anni Cinquanta vediamo comparire al cinema un nutrito numero di film di fantascienza in concomitanza con la conquista spaziale da parte degli USA e della Russia. Inevitabile che l’horror, con la sua portata e il suo ascendente sul pubblico, non inglobasse anche la fantascienza, producendo film di notevole interesse come La cosa da un altro mondo (1951) di Christian Nyby e Howard Hawks e L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel in cui la minaccia aliena si rivela efficace metafora degli avvenimenti reali dell’epoca.

Gli anni Sessanta vedono uno spostamento dall’esterno, cioè dall’alieno che giunge da un altrove, all’interno, cioè con i demoni interiori e con la psiche umana capace di creare personalità doppie. Il caso più emblematico di questo approccio è senz’altro Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, film che segna una sorta di spartiacque nella filmografia del regista inglese: con la mente schizofrenica di Norman Bates, il cinema si frantuma, la forma cade in mille pezzi di montaggio come dimostra la celeberrima scena della doccia. Tre anni dopo, con Gli uccelli, Hitchcock darà un nuovo scossone ai nervi dello spettatore: la natura non era mai stata così brutale. Ma sarà George A. Romero, nel 1968, a segnare un punto di cesura nella storia del cinema horror con La notte dei morti viventi: gli zombi invadono la terra e il cinema, dimostrandosi l’altra faccia della medaglia di una società ormai sull’orlo del collasso.

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Con la New Hollywood degli anni Settanta, il collasso giunge a compimento. L’horror diventa sempre più metafora dell’oggi, mostrando tutta la sua portata dirompente. I casi di Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (1968, vero apripista dell’horror del decennio successivo) di Roman Polanski e L’esorcista (1973) di William Friedkin, con le loro storie demoniache, mostrano un’America sempre più chiusa su se stessa, privilegiando infatti spazi chiusi come un hotel o un appartamento in cui muovere i personaggi e creare un senso di claustrofobia oltre che di vera e propria angoscia. E il Vietnam si fa sentire, come dimostrano L’ultima casa a sinistra (1972) di Wes Craven e Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper: dall’orrore della guerra si passa, per estensione, all’orrore di provincia.

L’Italia, nello stesso periodo, dà il suo contributo al genere con Dario Argento e i suoi due film più celebrati all’estero: Profondo rosso (1975), che resta sul versante del thriller, e Suspiria (1977) con cui il regista romano sperimenta tecniche di ripresa davvero innovative per l’epoca. Sul finire del decennio, anche se i precedenti di Craven e Hooper ne avevano anticipato le tematiche, giunge lo slasher, branca dell’horror in cui il sangue la fa da padrone e dove gli omicidi si susseguono per mano di un maniaco omicida: Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter è uno dei punti più alti del sottogenere slasher, ma il capostipite illustre (e spesso dimenticato) va cercato in Italia con Reazione a catena (1971) di Mario Bava.

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